Laureati alle prese con la crisi “Pronti a andare all’estero”
22 maggio 2012
Sempre più disponibili a lavorare all’estero. I laureati del
nostro Paese sono lontani dagli stereotipi con cui molti, anche i
decisori, continuano a rappresentarli. Più regolari negli studi, più
presenti alle lezioni e con più esperienze di stage e tirocini, sono
pronti a assumersi le proprie responsabilità e a cercare le opportunità
là dove vengono offerte. Negli ultimi quattro anni, caratterizzati da
una crisi interminabile, la percentuale dei ragazzi pronti a lasciare
l’Italia è salita fino al 44 per cento. Una crescita di otto punti
percentuali. E questo in un contesto in cui la disoccupazione giovanile è
passata dal 22,8 per cento della fine del 2008 al 35,9 per cento di
marzo di quest’anno.
Elemento chiave di ogni sviluppo, i giovani laureati, l’istruzione come strumento di mobilità sociale e la questione della valutazione degli atenei, sono gli oggetti di studio della nuova indagine di AlmaLaurea che ha coinvolto 215mila laureati.
Tra tempismo e presenze. Dal rapporto emerge come continui a crescere la quota dei giovani che concludono gli studi nei tempi previsti, così come quella di coloro che frequentano le lezioni e partecipano a esperienze di stage e tirocini durante gli studi. Il 68 per cento dei laureati del 2011 ha frequentato le lezioni e in media ha concluso le tesi in 5,7
mesi, mentre sette anni fa ne erano serviti molti di più (8,4 mesi).
All’ambito traguardo i laureati sono sono arrivati con un’età media di 26,9 anni. Nel 2004, l’anno precedente le ultime riforme, avevano quasi un anno in più (27,8 anni). Ma la differenza con allora è ancor più ampia di quanto sembri. La diversificazione dell’offerta formativa generata dalla riforma ha in qualche modo determinato anche un ritardo all’immatricolazione valutabile in un paio di anni. Così, al netto di questo ritardo, l’età alla laurea media è pari a 24,9 anni. L’evoluzione viene confermata anche dal fatto che ora il 17 per cento dei laureati ha meno di 23 anni e solo il 45 per cento arriva con un ritardo alla laurea (era il 65 per cento nel 2004).
I tirocini durante gli studi e il lavoro. Dal 2004 e oggi, è quasi triplicata la quota dei laureati che hanno avuto modo di fare degli stage. Nel 2011 il 55 per cento dei ragazzi usciti da un ateneo italiano ha partecipato a un percorso di tirocinio formativo durante gli studi. Prima delle riforme, avevano avuto un’occasione simile solo il 20 per cento dei laureati. Un’evoluzione che dovrebbe avere degli effetti positivi se è vero che, come dicono gli autori dell’indagine, il tirocinio aumenta la probabilità di trovare un’occupazione del 13,6 per cento.
I ragazzi italiani si ritrovano a dover fare i conti con un complesso scenario economico ma sembrano sempre più pronti a sacrifici pur di poter avere un’occasione. Sono sempre più disponibili a effettuare trasferte frequenti di lavoro (32 per cento) e a cambiare residenza (il 41 per cento). Solo il 3,6 per cento dei laureati, per lavoro, preferirebbe non fare trasferte.
La diminuita motivazione. In questi ultimi anni però è aumentata la quota dei laureati “poco motivati”: sono passati dal 10 per cento del 2007 al 14 per cento del 2011. Non certo una buona notizia visto che le motivazioni nella scelta del corso di laurea influenzano la riuscita universitaria sia in termini di voto d’esame, che di ritardo alla laurea. Allo stesso tempo, negli ultimi otto anni le immatricolazioni si sono ridotte del 15 per cento confermando il ridotto interesse per gli studi universitari di questa fascia di popolazione giovanile. Fenomeno che rende ancora più difficile raggiungere l’obiettivo europeo di avere laureata il 40 per cento della popolazione di età tra 30 e 34 anni (siamo fermi al 20 per cento).
I mille profili. Dal rapporto emerge chiaramente che, al di là dei valori medi dell’universo complessivo utili per un confronto con gli anni del pre-riforma, ci si trova davanti, più che a un unico profilo di laureato, a una molteplicità di figure. Ciascuno di queste caratterizzate da specificità proprie che vanno dall’ambito familiare di origine all’area geografica di provenienza. Dalla facoltà di iscrizione al dinamismo del mercato del lavoro locale.
Classi sociali e mobilità. I laureati della triennale provengono da classi sociali meno favorite, tendono a studiare sotto casa, forse anche per effetto della moltiplicazione dei corsi universitari, e raggiungono il traguardo a 24 anni. Tra i laureati specialistici, biennali e a ciclo unico, si riscontra invece una maggiore selezione sociale: sono giovani più avvantaggiati socialmente e culturalmente, più disponibili alla mobilità tra sedi universitarie, sono quelli con più esperienze di studi all’estero nel curriculum.
Professioni sanitarie vs. giuridiche. Anche all’interno dei singoli gruppi ci sono elevate differenze. Tra i laureati triennali, ad esempio, concludono in tempo il ciclo di studi il 65 per cento dei laureati delle professioni sanitarie su cento. Più bassa la quota (36-40 per cento) nei percorsi psicologico, educazione fisica, economico-statistico e scientifico. All’estremo opposto, riescono a restare in corso solo 15 laureati su cento del gruppo giuridico e a 29 su cento di quello in architettura.
Se si analizza nel dettaglio il dato medio dei tirocini dei laureati della specialistica, si scopre che coinvolge, come prevedibile, quasi otto su dieci dei giovani che escono da corsi legati al gruppo di studio dell’area medica e delle professioni sanitarie mentre nel gruppo giuridico si arriva a mala pena al 14 per cento.
Analisi e dettagli. Per questo, Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea, ha sottolineato come sia necessario “spingere l’analisi al di là del dato aggregato di sintesi, mettendo in evidenza l’estrema variabilità che caratterizza i diversi aspetti indagati e distinguendo le offerte formative che si sono tradotte in risultati positivi da quelle in evidente stato di sofferenza, la capacità di valorizzare eccellenze ma anche quella di considerare i diversi punti di partenza apprezzando il valore aggiunto prodotto”.
Investimenti e interazione università mondo produttivo. Da qui, il direttore di AlmaLaurea ha provato a indicare le linee da seguire a fronte della crisi: “E’ necessario investire in istruzione di alto livello, consolidare il processo di riforma del sistema universitario, incoraggiare i giovani a investire in formazione, promuovere la cultura della valutazione, migliorare l’interazione fra università e mondo della produzione, ridefinire l’offerta formativa per chi è già stabilmente inserito nel mercato del lavoro, costituiscano priorità irrinunciabili per il futuro del Paese”.
Elemento chiave di ogni sviluppo, i giovani laureati, l’istruzione come strumento di mobilità sociale e la questione della valutazione degli atenei, sono gli oggetti di studio della nuova indagine di AlmaLaurea che ha coinvolto 215mila laureati.
Tra tempismo e presenze. Dal rapporto emerge come continui a crescere la quota dei giovani che concludono gli studi nei tempi previsti, così come quella di coloro che frequentano le lezioni e partecipano a esperienze di stage e tirocini durante gli studi. Il 68 per cento dei laureati del 2011 ha frequentato le lezioni e in media ha concluso le tesi in 5,7
mesi, mentre sette anni fa ne erano serviti molti di più (8,4 mesi).
All’ambito traguardo i laureati sono sono arrivati con un’età media di 26,9 anni. Nel 2004, l’anno precedente le ultime riforme, avevano quasi un anno in più (27,8 anni). Ma la differenza con allora è ancor più ampia di quanto sembri. La diversificazione dell’offerta formativa generata dalla riforma ha in qualche modo determinato anche un ritardo all’immatricolazione valutabile in un paio di anni. Così, al netto di questo ritardo, l’età alla laurea media è pari a 24,9 anni. L’evoluzione viene confermata anche dal fatto che ora il 17 per cento dei laureati ha meno di 23 anni e solo il 45 per cento arriva con un ritardo alla laurea (era il 65 per cento nel 2004).
I tirocini durante gli studi e il lavoro. Dal 2004 e oggi, è quasi triplicata la quota dei laureati che hanno avuto modo di fare degli stage. Nel 2011 il 55 per cento dei ragazzi usciti da un ateneo italiano ha partecipato a un percorso di tirocinio formativo durante gli studi. Prima delle riforme, avevano avuto un’occasione simile solo il 20 per cento dei laureati. Un’evoluzione che dovrebbe avere degli effetti positivi se è vero che, come dicono gli autori dell’indagine, il tirocinio aumenta la probabilità di trovare un’occupazione del 13,6 per cento.
I ragazzi italiani si ritrovano a dover fare i conti con un complesso scenario economico ma sembrano sempre più pronti a sacrifici pur di poter avere un’occasione. Sono sempre più disponibili a effettuare trasferte frequenti di lavoro (32 per cento) e a cambiare residenza (il 41 per cento). Solo il 3,6 per cento dei laureati, per lavoro, preferirebbe non fare trasferte.
La diminuita motivazione. In questi ultimi anni però è aumentata la quota dei laureati “poco motivati”: sono passati dal 10 per cento del 2007 al 14 per cento del 2011. Non certo una buona notizia visto che le motivazioni nella scelta del corso di laurea influenzano la riuscita universitaria sia in termini di voto d’esame, che di ritardo alla laurea. Allo stesso tempo, negli ultimi otto anni le immatricolazioni si sono ridotte del 15 per cento confermando il ridotto interesse per gli studi universitari di questa fascia di popolazione giovanile. Fenomeno che rende ancora più difficile raggiungere l’obiettivo europeo di avere laureata il 40 per cento della popolazione di età tra 30 e 34 anni (siamo fermi al 20 per cento).
I mille profili. Dal rapporto emerge chiaramente che, al di là dei valori medi dell’universo complessivo utili per un confronto con gli anni del pre-riforma, ci si trova davanti, più che a un unico profilo di laureato, a una molteplicità di figure. Ciascuno di queste caratterizzate da specificità proprie che vanno dall’ambito familiare di origine all’area geografica di provenienza. Dalla facoltà di iscrizione al dinamismo del mercato del lavoro locale.
Classi sociali e mobilità. I laureati della triennale provengono da classi sociali meno favorite, tendono a studiare sotto casa, forse anche per effetto della moltiplicazione dei corsi universitari, e raggiungono il traguardo a 24 anni. Tra i laureati specialistici, biennali e a ciclo unico, si riscontra invece una maggiore selezione sociale: sono giovani più avvantaggiati socialmente e culturalmente, più disponibili alla mobilità tra sedi universitarie, sono quelli con più esperienze di studi all’estero nel curriculum.
Professioni sanitarie vs. giuridiche. Anche all’interno dei singoli gruppi ci sono elevate differenze. Tra i laureati triennali, ad esempio, concludono in tempo il ciclo di studi il 65 per cento dei laureati delle professioni sanitarie su cento. Più bassa la quota (36-40 per cento) nei percorsi psicologico, educazione fisica, economico-statistico e scientifico. All’estremo opposto, riescono a restare in corso solo 15 laureati su cento del gruppo giuridico e a 29 su cento di quello in architettura.
Se si analizza nel dettaglio il dato medio dei tirocini dei laureati della specialistica, si scopre che coinvolge, come prevedibile, quasi otto su dieci dei giovani che escono da corsi legati al gruppo di studio dell’area medica e delle professioni sanitarie mentre nel gruppo giuridico si arriva a mala pena al 14 per cento.
Analisi e dettagli. Per questo, Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea, ha sottolineato come sia necessario “spingere l’analisi al di là del dato aggregato di sintesi, mettendo in evidenza l’estrema variabilità che caratterizza i diversi aspetti indagati e distinguendo le offerte formative che si sono tradotte in risultati positivi da quelle in evidente stato di sofferenza, la capacità di valorizzare eccellenze ma anche quella di considerare i diversi punti di partenza apprezzando il valore aggiunto prodotto”.
Investimenti e interazione università mondo produttivo. Da qui, il direttore di AlmaLaurea ha provato a indicare le linee da seguire a fronte della crisi: “E’ necessario investire in istruzione di alto livello, consolidare il processo di riforma del sistema universitario, incoraggiare i giovani a investire in formazione, promuovere la cultura della valutazione, migliorare l’interazione fra università e mondo della produzione, ridefinire l’offerta formativa per chi è già stabilmente inserito nel mercato del lavoro, costituiscano priorità irrinunciabili per il futuro del Paese”.
di Federico Pace
fonte: repubblica.it
Non è un Paese per donne e giovani e il Mezzogiorno è sempre più alla deriva
22 maggio 2012
Il Paese dove appena il 20,3% dei
figli degli operai è arrivato all’università, contro il 61,9% dei figli
delle classi agiate, della generazione nata negli anni ’80. Dove il 30%
dei figli degli operai abbandona le scuole superiori contro appena il
6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. Perché
in Italia la selezione comincia dai banchi di scuola, e non si tratta
di una selezione naturale: l’ascensore sociale è bloccato da lungo
tempo, dagli anni ’60, rileva il Rapporto Annuale Istat.
Ma è soprattutto ora, con la crisi, che le disuguaglianze si sono ampliate a livelli insopportabili per un Paese civile. Un Paese civile le colma attraverso la scuola e i servizi sociali. In Italia la scuola prende atto della disuguaglianza appena si conclude il ciclo obbligatorio, e i servizi sociali aumentano a dismisura le disparità tra Nord e Sud, uomini e donne, garantiti e atipici, giovani e anziani.
Ma è soprattutto ora, con la crisi, che le disuguaglianze si sono ampliate a livelli insopportabili per un Paese civile. Un Paese civile le colma attraverso la scuola e i servizi sociali. In Italia la scuola prende atto della disuguaglianza appena si conclude il ciclo obbligatorio, e i servizi sociali aumentano a dismisura le disparità tra Nord e Sud, uomini e donne, garantiti e atipici, giovani e anziani.
Classi sociali ghetto. Che l’ascensore
sociale si fosse bloccato da oltre 50 anni non ce ne siamo accorti
inizialmente per via dei cambiamenti nella struttura dell’occupazione
che, a partire dal dopoguerra, ricorda l’Istat, hanno interessato in
misura massiccia il settore agricolo, che si è via via ridimensionato a
favore degli altri settori produttivi. E così “si sono spostati 9 figli
di operai agricoli e poco meno di nove figli dei coltivatori diretti e
piccoli proprietari terrieri su 10″, e “la quota degli operai agricoli
sul totale degli occupati si è ridotta considerevolmente, passando dal
7,7 per cento all’1,6 per cento”.
Però, al netto di questo movimento, “la
classe sociale di origine influisce in misura rilevante sul risultato
finale, determinando rilevanti disuguaglianze nelle opportunità offerte
agli individui: al netto degli effetti strutturali, tutte le classi (in
particolare quelle poste agli estremi della scala sociale) tendono a
trattenere al loro interno buona parte dei propri figli e i cambiamenti
di classe sono tanto meno frequenti quanto più grande è la distanza che
le separa”.
Il contributo del fisco alla
disuguaglianza. Il fisco, rileva l’Istat, dovrebbe avere un effetto
redistributivo. E in effetti le detrazioni Irpef pari a 1.230 euro in
media per i contribuenti a basso reddito si riducono a 720 euro per chi
ha un reddito tra i 28.000 e i 55.000 euro per poi annullarsi, e anche
le detrazioni per i familiari a carico vanno a vantaggio dei redditi più
bassi. Però “gli abbattimenti e le deduzioni dell’imponibile, invece,
favoriscono particolarmente le famiglie ad alto reddito e riducono la
progressitività”. Infatti sono massime (circa 5.700 euro) per i
contribuenti che dichiarano più di 75.000 euro e minime (880 euro) per
chi dichiara meno di 15.000 euro. Per gli incapienti (coloro che non
arrivano al reddito minimo tassabile) non è previsto alcun beneficio.
Inoltre le detrazioni favoriscono le famiglie con due o più percettori
di reddito, contro quelle in cui a lavorare è solo uno.
Le donne, sempre più escluse. Nei Paesi
scandinavi le coppie in cui la donna non percepisce un reddito da lavoro
sono meno del 4%, in Francia il 10,9%, in Spagna il 22,8%, nella Ue27
il 19,8%. In Italia il 33,7% delle donne tra i 25 e i 54 anni non
percepisce alcun reddito, dato che ci fa precipitare in fondo alla
classifica europea per il contributo della donna ai redditi della donna.
Come vivono queste donne a carico dei mariti? L’Istat ce ne riporta un
ritratto di sapore medievale, che vale la pena di riportare per intero.
L’angelo del focolare. “Nelle coppie in
cui la donna non lavora (30% del totale) è più alta la frequenza dei
casi in cui lei non ha accesso al conto corrente (47,1% contro il 28,6%
degli uomini); non è libera di spendere per sé stessa (28,3%), non
condivide le decisioni importanti con il partner (circa il 20%); non è
titolare dell’abitazione di proprietà”. Inoltre le moglie separate o
divorziate sono più esposte al rischio di povertà a fronte dei mariti
nella stessa situazione: 24% contro 15,3%.
Gli atipici, i paria del mondo del
lavoro. I dati Istat sulle disuguaglianze a sfavore dei lavoratori
atipici dovrebbero far riflettere chi esalta i pregi della flessibilità.
Il peso degli occupati atipici (cioè dipendenti a tempo determinato,
collaboratori o prestatori d’opera occasionali) sul totale degli
occupati è in aumento, tanto che è entrato nel mondo del lavoro da
atipico il 31,1% dei nati negli anni ’70, ma il 44,6% dei nati dagli
anni ’80 in poi. Non sempre quest’ingresso dà l’accesso a un’occupazione
stabile. Anche qui, la classe sociale di provenienza gioca pesantemente
il suo ruolo: “Il passaggio a lavori standard è più facile per gli
appartenenti alla classe sociale più alta, mentre chi ha iniziato come
operaio in un lavoro atipico, dopo dieci anni, nel 29,7% dei casi è
ancora precario e nell’11,6% ha perso il lavoro”.
Mezzogiorno: la débâcle dei servizi
sociali. Nel Mezzogiorno va peggio per tutti: per gli operai, per i
giovani, per le donne. Ma quello che colpisce è il viaggio che l’Istat
ha compiuto nei servizi sociali. I servizi sociali, proprio come la
scuola, dovrebbero attuare il secondo comma dell’articolo 3 della
Costituzione: mettere i cittadini svantaggiati nelle medesime condizioni
di partenza di quelli privilegiati.
E invece là dove l’economia è depressa, e
dove è più importante il ruolo dei servizi sociali pubblici, si spende
meno e male. Qualche dato: nel 2010 il Servizio sanitario nazionale ha
speso 1833 euro pro capite, che vanno dai 2.191 della provincia di
Bolzano ai 1.690 della Sicilia. Le strutture residenziali per anziani
offrono in media 37 posti letto ogni 1000 anziani residenti nel Nord, e
appena 10 al Sud. I livelli più alti di soddisfazione per i servizi
ospedalieri si riscontrano in Piemonte, Valle d’Aosta, Trento, Veneto,
Emilia Romagna e Toscana, i più bassi in Campania e Sicilia.
La spesa sociale nel 2009 in seguito
alla crisi è diminuita dell’1,5% nel Mezzogiorno, ma è aumetnata del 6%
nel Nord-Est, del 4,2% nel Nord-Ovest e del 5% al Centro. Per i servizi
sociali i comuni calabresi spendono 26 euro a persona, quelli della
Provincia Autonoma di Trento 295 euro. Per i disabili i comuni del Sud
spendono otto volte meno di quelli del Nord. I nidi pubblici sono
presenti nel 78% dei Comuni del Nord-Est ma nel 21% di quelli del Sud.
di Rosaria Amato
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