Gianna P. ha trentasette anni, un bel  bambino e un grande sorriso. “La povertà? Io l’avevo assaggiata da  piccola, quando mio papà è morto in un incidente. Solo assaggiata, però.  Se chiedevo un paio di scarpe, queste arrivavano, magari dopo quattro  mesi. Sono andata a scuola, mi sono diplomata, ho avuto la macchina come  tutte le mie amiche. Adesso sì, sono povera. E ho capito che ad essere  povera la cosa che manca di più è la libertà. Se avessi ancora il mio  lavoro e il mio stipendio, anche se mi sono separata dal marito, potrei  affittare un appartamento per me e per mio figlio che ha sette anni. E  invece sono tornata a vivere da mia madre, non potevo fare altro. Sei  sempre una bimba, per i tuoi genitori, e così ti trattano. Io l’ho  provata, l’indipendenza economica, l’avevo conquistata”. “Da più di un anno l’ho persa e assieme a lei se n’è andata la libertà  di vivere in un posto tutto mio. Le vacanze al mare, le gite nel  week-end? Ormai sono un ricordo ma questo non mi pesa. Mi manca la  chiave della mia porta, della mia cucina…”
La parola “povertà” ha un sapore amaro, soprattutto in questa terra  emiliana che sembrava tutta ricca. Ricorda i libretti dell’Eca (Ente  comunale di assistenza), chiamati semplicemente “i libretti dei poveri”,  tenuti nascosti nei comò ed esibiti solo per avere le medicine gratis o  un sussidio per mandare i figli in colonia.
Gianna P., perdendo il lavoro, si trova dentro l’11% delle famiglie  italiane che hanno una capacità di spesa inferiore a 992,46 euro al  mese. “Adesso mi sveglio al mattino e mi dico: Gianna, fatti coraggio.  Fai finta di essere ancora una ragazzina, alla ricerca del primo lavoro.  Se sei stata capace di andare avanti, devi essere capace di tornare  indietro e di ricominciare. Ho cominciato a lavorare nel 1995, avevo 21  anni. Primo stipendio, 800 mila lire. Prima receptionist, poi impiegata  di buon livello. Due anni dopo mi sono sposata e le cose andavano  davvero bene. Prima che l’azienda andasse in crisi, io e mio marito  portavamo a casa 3100 euro al mese, 1500 io, 1600 lui. E c’erano la  tredicesima e la quattordicesima, e anche i buoni pasto da 6,45 euro,  che quando li hai quasi non ci badi ma quando spariscono ti accorgi  quanto siano utili. Ci sentivamo non ricchi ma tranquilli. Un  appartamento in affitto, a 600 euro al mese. Quattrocento euro per  l’asilo nido del piccolo. Ecco, in questi giorni di caldo ci preparavamo  per andare al mare, dieci o quindici giorni in un appartamento o in un  hotel. E d’inverno ci prendevamo un’altra pausa, quattro o cinque giorni  in Trentino, senza sciare ma con lunghe passeggiate sulla neve. Al  ristorante o in pizzeria? Quasi mai. Preferivamo risparmiare per le  nostre piccole vacanze o per portare il bimbo a Gardaland”.
Arriva la separazione dal marito ma le cose non cambiano troppo. “Con il  mio stipendio e l’assegno dell’ex coniuge per il bimbo – 350 euro al  mese – ce l’avrei fatta a vivere in autonomia. Ma all’inizio del 2010  arriva la crisi dell’azienda, con gli stipendi che tardano prima un mese  poi due poi sei mesi e ti trovi all’acqua. L’affitto non lo puoi più  pagare, torni dalla mamma e meno male che ha un appartamento suo. In  azienda arriva il nuovo proprietario, tornano gli stipendi ma solo per  qualche mese. Adesso non so di quale statistica Istat io faccia parte.  So soltanto che da marzo ad oggi, e forse fino a novembre, non prendo un  euro. In teoria c’è la cassa integrazione speciale, perché anche i  nuovi padroni hanno dichiarato fallimento, ma gli assegni da 700-800  euro ancora non si vedono. L’unico reddito è l’assegno del mio ex. Io  però sono una che non accetta di farsi mantenere. A mia madre non pago  l’affitto ma partecipo a tutte le spese, dal vitto alle bollette, dalla  benzina all’assicurazione della macchina. Se ne vanno in media 450 euro  al mese, che prendo in gran parte dai miei risparmi”.
Non è purtroppo una mosca bianca, Gianna P. “Seguo i lavoratori delle  aziende metalmeccaniche nei Comuni di Casalecchio e Sasso Marconi – dice  Cristina Pattarozzi della Fiom Cgil – e purtroppo l’80% vivono ormai di  ammortizzatori sociali. Chiusure, fallimenti, cassa integrazione,  mobilità… A volte noi sindacalisti dobbiamo fare un altro mestiere,  quello dell’assistente sociale. Ci sono famiglie dove tutti sono in  cassa integrazione e se gli assegni sono, come sempre, in ritardo, non  hanno i soldi per comprare da mangiare o per pagare bollette e mutui. E  allora vai in Comune, spieghi la situazione, intervieni per bloccare uno  sfratto. Le donne e gli stranieri sono i più colpiti ma forse anche i  più forti. Sanno reagire, cercano nuove strade. Per molti uomini, anche  giovani, la crisi dell’azienda è invece vissuta male. Si sentono persi,  vanno in depressione. Stanno male perché non hanno i soldi per andare al  solito supermercato e vanno al discount quasi di nascosto perché si  vergognano”.
Non è facile essere poveri e accendere la tv per sentire uno che dice  che “il lusso è un diritto”. I bar sono pieni, si paga un caffè e si sta  lì mezza giornata. “Io sono senza stipendio da quattro mesi e allora,  all’inizio di giugno, ho preso i miei due figli e sono andato a pranzo  dai miei genitori. Non ho dovuto spiegare nulla. Hanno apparecchiato e  solo alla fine mia madre ha detto: va bene alle 13 anche domani?”. “Io  ho tirato giù dal solaio la tenda, non andavo in campeggio da vent’anni.  Insomma, con la crisi si torna giovanotti”. “Ad agosto porto i miei tre  bambini al mare, ma solo perché mia suocera ha pagato l’affitto  dell’appartamento. E’ stata gentile, non mi ha fatto pesare nulla. Ha  detto: ho preso un appartamento con tre stanze, un’occasione. Venite con  me?”. “Ho controllato i punti della Coop e ho scoperto che ho speso  meno di un terzo, rispetto all’anno scorso. Vado al discount per  spendere meno. Al mattino presto, oppure mi sposto nei Paesi vicini,  dove non mi conoscono”.
Gianna P. deve andare via, per prendere il bambino al centro estivo. “Si  paga anche lì, è un sacrificio ma non voglio che il mio piccolo abbia  meno degli altri. E’ stato anche al mare, con suo papà che per fortuna  ha ancora lo stipendio. Se il bimbo sta bene, sto bene anch’io.  Quest’anno per me niente vacanze, ma non importa. Io sono una cui non  piace “stare in schiena” e nessuno. Vuol dire che non mi piace farmi  mantenere, né dalla mamma né dallo Stato. E così proprio l’altro giorno  sono andata all’Inps per interrompere la cassa integrazione. Ho trovato  da lavorare in un’azienda, da una settimana. Sono in prova, spero che mi  assuma davvero. Certo, cercare lavoro oggi è come subire una rapina a  mano armata. Prendevi 1500 euro? Te ne do 1025, prendere o lasciare. Se  tengo conto dell’assegno di 700-800 euro al mese che dovrà pur arrivare e  delle spese per andare in macchina nella nuova azienda, faccio pari e  patta. Prenderei gli stessi soldi restando a casa, ad aspettare cassa  integrazione o mobilità. Ma ho un figlio e devo dargli un futuro. E poi  sono fatta così. Se devo ricominciare, ricomincio davvero. Non sono più  una ragazzina ma non voglio uscire dal mondo del lavoro. Se sei fuori,  anche con un assegno dell’Inps, è un macello. A non lavorare si sta  male, perché ti senti vuota e inutile. Niente ferie, niente piscina,  niente vestitino nuovo e va bene così. Ma io, quella voglia che avevo  dentro quando ho cominciato a lavorare, la sento ancora. E’ una voglia  di stipendio, di casa, di libertà.  Chiedo troppo?”.
 di Jennifer Meletti
la repubblica.it