4 febbraio 2012
Più tutele per i risparmiatori “inseguiti” dai promotori finanziari fin dentro a casa o sul luogo di lavoro per strappare loro una firma da cui poi è troppo difficile liberarsi. La vicenda, già nota alla cronache, è quella della vendita al pubblico del prodotto finanziario “4 You”, commercializzato dal Monte dei Paschi di Siena, la cui vendita, da un certo punto in poi, era stata sospesa. L’offerta aprì un forte contenzioso poi in parte risolto attraverso una serie di tavoli di conciliazione, con i clienti assistiti dalle associazioni dei consumatori: e furono migliaia coloro che ottennero risarcimenti parziali o integrali. Evidentemente non era questo il caso sui cui la Suprema corte ha deliberato oggi, sentenza 1585/2012 (si legga il testo sul sito di Guida al diritto ), annullando il contratto sottoscritto da un consumatore di Genova e confermando la condanna della banca a risarcire il risparmiatore di tutte le rate versate dal 2011, oltre agli interessi maturati.
Contratto nullo senza clausola di recesso
Il Monte Paschi condannato sia in primo che secondo grado, infatti, non si era dato per vinto ed aveva portato il cliente fino alla Suprema corte. Anche per gli “ermellini” però il contratto doveva ritenersi nullo perché non conteneva la previsione della facoltà di recesso da parte del sottoscrittore, così come previsto dall’articolo 30 del Testo unico della finanza per le offerte fatte fuori sede. Non era sufficiente, infatti, la presenza della clausola di recesso sul solo prospetto informativo riguardante uno dei tasselli dell’investimento, e cioè il fondo comune, dovendo essere presente su tutti i moduli.
Il Monte Paschi condannato sia in primo che secondo grado, infatti, non si era dato per vinto ed aveva portato il cliente fino alla Suprema corte. Anche per gli “ermellini” però il contratto doveva ritenersi nullo perché non conteneva la previsione della facoltà di recesso da parte del sottoscrittore, così come previsto dall’articolo 30 del Testo unico della finanza per le offerte fatte fuori sede. Non era sufficiente, infatti, la presenza della clausola di recesso sul solo prospetto informativo riguardante uno dei tasselli dell’investimento, e cioè il fondo comune, dovendo essere presente su tutti i moduli.
Uno strumento finanziario complesso
Ecco come funzionava il contratto: al cliente veniva erogato, in un’unica soluzione, un finanziamento quindicennale che si impegnava a restituire mediante una serie pagamenti rateali. La somma poi veniva immediatamente investita: in parte in titoli obbligazionari e in parte in quote di un fondo comune. I primi venivano acquistati dalla banca che li deteneva nel proprio portafoglio, i secondi erano sottoscritti dalla banca in nome e per conto del cliente che perciò conferiva un apposito mandato. Mentre la restituzione del prestito era garantita con la costituzione in pegno in favore della banca dei titoli obbligazionari stessi e delle quote del fondo comune detenute dal cliente. A questo fine il risparmiatore doveva anche disporre di un conto corrente e di deposito titoli presso l’istituto. Ma i quindicennale che si impegnava a restituire mediante una serie pagamenti rateali. La somma poi veniva immediatamente investita: in parte in titoli obbligazionari e in parte in quote di un fondo comune. I primi venivano acquistati dalla banca che li deteneva nel proprio portafoglio, i secondi erano sottoscritti dalla banca in nome e per conto del cliente che perciò conferiva un apposito mandato. Mentre la restituzione del prestito era garantita con la costituzione in pegno in favore della banca dei titoli obbligazionari stessi e delle quote del fondo comune detenute dal cliente. A questo fine il risparmiatore doveva anche disporre di un conto corrente e di deposito titoli presso l’istituto. Ma i rendimenti attesi non arrivavano, da qui il tentativo di sganciarsi da parte dei clienti e il successivo ricorso alla magistratura di fronte alle difficoltà.
Negli anni scorsi il contratto era stato già invalidato per tutta un’altra serie di ragioni: dal conflitto di interessi perché il risparmiatore acquistava, tramite il finanziamento, titoli su cui lo stesso istituto di credito vantava un interesse economico, alla scarsa trasparenza del contratto, fino alla opacità della parte normativa. Ma erano gli anni della bolla, oggi sono tutti più cauti, banche e consumatori, almeno si spera.rendimenti attesi non arrivavano, da qui il tentativo di sganciarsi da parte dei clienti e il successivo ricorso alla magistratura di fronte alle difficoltà.
Negli anni scorsi il contratto era stato già invalidato per tutta un’altra serie di ragioni: dal conflitto di interessi perché il risparmiatore acquistava, tramite il finanziamento, titoli su cui lo stesso istituto di credito vantava un interesse economico, alla scarsa trasparenza del contratto, fino alla opacità della parte normativa. Ma erano gli anni della bolla, oggi sono tutti più cauti, banche e consumatori, almeno si spera.
Ecco come funzionava il contratto: al cliente veniva erogato, in un’unica soluzione, un finanziamento quindicennale che si impegnava a restituire mediante una serie pagamenti rateali. La somma poi veniva immediatamente investita: in parte in titoli obbligazionari e in parte in quote di un fondo comune. I primi venivano acquistati dalla banca che li deteneva nel proprio portafoglio, i secondi erano sottoscritti dalla banca in nome e per conto del cliente che perciò conferiva un apposito mandato. Mentre la restituzione del prestito era garantita con la costituzione in pegno in favore della banca dei titoli obbligazionari stessi e delle quote del fondo comune detenute dal cliente. A questo fine il risparmiatore doveva anche disporre di un conto corrente e di deposito titoli presso l’istituto. Ma i quindicennale che si impegnava a restituire mediante una serie pagamenti rateali. La somma poi veniva immediatamente investita: in parte in titoli obbligazionari e in parte in quote di un fondo comune. I primi venivano acquistati dalla banca che li deteneva nel proprio portafoglio, i secondi erano sottoscritti dalla banca in nome e per conto del cliente che perciò conferiva un apposito mandato. Mentre la restituzione del prestito era garantita con la costituzione in pegno in favore della banca dei titoli obbligazionari stessi e delle quote del fondo comune detenute dal cliente. A questo fine il risparmiatore doveva anche disporre di un conto corrente e di deposito titoli presso l’istituto. Ma i rendimenti attesi non arrivavano, da qui il tentativo di sganciarsi da parte dei clienti e il successivo ricorso alla magistratura di fronte alle difficoltà.
Negli anni scorsi il contratto era stato già invalidato per tutta un’altra serie di ragioni: dal conflitto di interessi perché il risparmiatore acquistava, tramite il finanziamento, titoli su cui lo stesso istituto di credito vantava un interesse economico, alla scarsa trasparenza del contratto, fino alla opacità della parte normativa. Ma erano gli anni della bolla, oggi sono tutti più cauti, banche e consumatori, almeno si spera.rendimenti attesi non arrivavano, da qui il tentativo di sganciarsi da parte dei clienti e il successivo ricorso alla magistratura di fronte alle difficoltà.
Negli anni scorsi il contratto era stato già invalidato per tutta un’altra serie di ragioni: dal conflitto di interessi perché il risparmiatore acquistava, tramite il finanziamento, titoli su cui lo stesso istituto di credito vantava un interesse economico, alla scarsa trasparenza del contratto, fino alla opacità della parte normativa. Ma erano gli anni della bolla, oggi sono tutti più cauti, banche e consumatori, almeno si spera.
fonte: sole24ore.it
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