Inflazione e tasse pesano, busta paga ferma da dieci anni
22 dicembre 2011
Le retribuzioni dei lavoratori italiani sono basse e tartassate. Negli ultimi 15 anni hanno perso terreno nei confronti internazionali. E la differenza tra i salari più ricchi e quelli più poveri è aumentata. Adesso, poi, con l’inflazione che ha ripreso a correre e con la stangata Monti appena decisa, la perdita di potere d’acquisto rischia di essere pesante. Partiamo dai raffronti con gli altri Paesi, utilizzando i dati 2010 dell’Ocse, l’organizzazione dei Paesi più industrializzati. L’Italia si colloca al 22esimo posto su 34 nella classifica dei salari netti: 25.155 dollari (19.350 euro al cambio di ieri). Mille euro in meno della media Ocse e quasi 4 mila in meno della media dell’Ue a 15. Nel Regno Unito la retribuzione netta è stata di 11 mila euro superiore a quella media italiana. In Germania hanno preso quasi 5 mila euro in più che da noi, in Francia 2 mila e perfino in Spagna ci hanno superato di circa 1.500 euro. L’Italia è comunque ultima per livello di salario netto tra i Paesi del G7.
Volete una spiegazione? Ce ne sono tante, ma una la fornisce la stessa Ocse, mettendo a confronto il livello di imposizione fiscale (tasse e contributi) sugli stipendi. L’Italia si colloca al quinto posto su 34, con un prelievo del 46,9% misurato sulla retribuzione media di un lavoratore single senza figli. Ci battono, nell’ordine, solo Belgio (55,4%), Francia (49,3%), Germania (49,1%) e Austria (47,9%). Invece, Spagna, Olanda e Danimarca stanno intorno al 38-39% e il Regno Unito al 32,7%. Se poi si mettesse a confronto il prelievo su un lavoratore con carichi familiari è probabile che la posizione dell’Italia peggiorerebbe, per esempio rispetto alla Francia che ha il Fisco col quoziente familiare.
Questa la fotografia attuale, ma la cosa che preoccupa di più, osserva Carlo Dell’Aringa, uno dei massimi esperti della materia, è che «negli ultimi 10-15 anni la posizione relativa dell’Italia è peggiorata. È aumentato cioè il divario rispetto a Regno Unito, Germania, Francia e Olanda. Il motivo è che la produttività è rimasta quasi ferma, mentre altrove è aumentata». Dal ’96 a oggi le retribuzioni lorde sono rimaste al palo. Scrive la Banca d’Italia nell’ultima relazione annuale: «Nel settore privato tra il 1996 e il 2010 le retribuzioni reali di fatto per unità di lavoro sono aumentate dello 0,7% all’anno, quelle contrattuali dello 0,4%». Ma nell’ultimo anno è venuta meno anche la tenuta rispetto all’inflazione ufficiale. Gli ultimi dati dell’Istat, riferiti al terzo trimestre del 2011 segnalano che nei confronti dello stesso periodo del 2010 le retribuzioni lorde sono aumentate dell’1,4%, cioè meno della metà rispetto ai prezzi (l’inflazione ha raggiunto il 3,3% a novembre). Inoltre, secondo l’Ires-Cgil guidato da Agostino Megale, il fiscal drag , cioè le maggiori imposte che si pagano per effetto dell’aumento nominale dei redditi, ha sottratto ai salari lordi più di 200 euro all’anno dal 2000 al 2010. E nel 2011, secondo l’Ires, uno stipendio medio perderà circa 260 euro di potere d’acquisto rispetto all’inflazione e 306 euro a causa del fiscal drag : in tutto 566 euro.
L’inflazione e il cosiddetto cuneo fiscale, dunque, hanno un peso nel far perdere terreno ai salari, già tradizionalmente bassi in Italia, a causa della struttura produttiva dominata dalle piccole e piccolissime imprese. Sempre l’Istat osserva che «i lavoratori dipendenti delle microimprese (meno di 10 addetti) percepiscono una retribuzione annua pro capite di 18,4 mila euro, il 65,6% di quella percepita in media dai dipendenti delle imprese con 250 addetti e oltre (28,1 mila euro). Il differenziale retributivo medio legato alla dimensione aziendale è riscontrabile in tutti i macrosettori di attività economica». Le imprese con più di 250 dipendenti sono appena 3.502 su un totale di 4,3 milioni. Quelle con meno di 10 addetti 4,1 milioni. La dimensione media delle aziende italiane è di 3,9 addetti. Il valore aggiunto pro capite nelle microaziende è di 24 mila euro, in quelle con più di 250 dipendenti è invece di 60 mila euro. Eccolo il legame tra salari e produttività.
A questa situazione di base, già svantaggiata, si somma una scarsa crescita della produttività, in parte riconducibile proprio al nanismo imprenditoriale, in parte ad altri fattori. Spiega Dell’Aringa: «Il basso andamento dei salari riflette a posteriori la dinamica della produttività. Si tratterebbe invece di legare retribuzioni e produttività ex ante, attraverso una contrattazione più efficiente. In altre parole, se i lavoratori, azienda per azienda, sanno che producendo di più guadagneranno di più, questo può innescare un comportamento virtuoso che farà crescere la produttività e quindi i salari». È un po’ quello che è successo in Germania e negli altri Paesi dove la contrattazione aziendale è sviluppata e c’è una maggiore partecipazione dei dipendenti ai risultati dell’impresa. Ci sono poi almeno altri due fattori che svantaggiano l’Italia nei confronti internazionali. 1) I maggiori costi dei servizi pubblici e privati alle imprese: dai trasporti alla giustizia, dall’elettricità alla burocrazia. 2) Un livello di istruzione della manodopera inferiore alla media dei Paesi Ocse e con una formazione spesso non in linea con le richieste delle imprese.
Per rimettere in moto la produttività bisogna quindi agire su più fronti, attraverso riforme strutturali, accompagnate da una contrattazione più moderna e partecipativa. Più produttività significa più salario. A patto però che il prelievo fiscale e contributivo non aumenti e che l’inflazione venga tenuta sotto controllo. Questo per la media dei lavoratori. Ma c’è un’emergenza che riguarda i precari e più in generale i poor workers , quelli con retribuzioni povere e instabili che si allontanano sempre più dai lavoratori più ricchi. Il salario medio del 10% più ricco nel nostro Paese, dice l’Ocse, è oltre 10 volte quello del 10% più povero: 49.300 euro contro 4.877, e il divario è aumentato rispetto agli anni Novanta, quando era di 8 a 1. Secondo il 12° Rapporto sulle retribuzioni in Italia 2011 di OD&M, effettuato elaborando le retribuzioni di un campione di 700 mila lavoratori, i dirigenti guadagno in media 106.886 euro lordi, i quadri 53.585, gli impiegati 27.009, gli operai 21.793. E, «con riferimento ai primi 6 mesi del 2011, solo i dirigenti hanno avuto un aumento del proprio potere d’acquisto».
Il problema dei poor workers, dice Dell’Aringa, va affrontato con decisione, facendo costare di più determinate forme di rapporto di lavoro abusate dalle aziende: «Mi riferisco alle false partite Iva, alle false collaborazioni e ai falsi stage. Bisogna aumentare i contributi sui lavori precari con un unico committente e forse bisogna pensare a un salario minimo. Eppoi, si devono mandare anche i carabinieri». Solo così le aziende non troveranno più conveniente mascherare dietro rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione quelli che sono invece lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Eliminati gli abusi, bisogna «non toccare forme contrattuali che funzionano, come l’apprendistato, il lavoro interinale e i contratti a termine, che hanno tutte le garanzie del caso e spesso sono un trampolino verso i contratti a tempo indeterminato». Per questi ultimi, conclude Dell’Aringa, bisogna rilanciare la produttività, ridurre la differenza tra lordo e netto, tagliare quindi il cuneo fiscale e gli altri costi. Tra questi ultimi ci sono anche quelli dei licenziamenti. Ma tagliarli non è il toccasana.
Volete una spiegazione? Ce ne sono tante, ma una la fornisce la stessa Ocse, mettendo a confronto il livello di imposizione fiscale (tasse e contributi) sugli stipendi. L’Italia si colloca al quinto posto su 34, con un prelievo del 46,9% misurato sulla retribuzione media di un lavoratore single senza figli. Ci battono, nell’ordine, solo Belgio (55,4%), Francia (49,3%), Germania (49,1%) e Austria (47,9%). Invece, Spagna, Olanda e Danimarca stanno intorno al 38-39% e il Regno Unito al 32,7%. Se poi si mettesse a confronto il prelievo su un lavoratore con carichi familiari è probabile che la posizione dell’Italia peggiorerebbe, per esempio rispetto alla Francia che ha il Fisco col quoziente familiare.
Questa la fotografia attuale, ma la cosa che preoccupa di più, osserva Carlo Dell’Aringa, uno dei massimi esperti della materia, è che «negli ultimi 10-15 anni la posizione relativa dell’Italia è peggiorata. È aumentato cioè il divario rispetto a Regno Unito, Germania, Francia e Olanda. Il motivo è che la produttività è rimasta quasi ferma, mentre altrove è aumentata». Dal ’96 a oggi le retribuzioni lorde sono rimaste al palo. Scrive la Banca d’Italia nell’ultima relazione annuale: «Nel settore privato tra il 1996 e il 2010 le retribuzioni reali di fatto per unità di lavoro sono aumentate dello 0,7% all’anno, quelle contrattuali dello 0,4%». Ma nell’ultimo anno è venuta meno anche la tenuta rispetto all’inflazione ufficiale. Gli ultimi dati dell’Istat, riferiti al terzo trimestre del 2011 segnalano che nei confronti dello stesso periodo del 2010 le retribuzioni lorde sono aumentate dell’1,4%, cioè meno della metà rispetto ai prezzi (l’inflazione ha raggiunto il 3,3% a novembre). Inoltre, secondo l’Ires-Cgil guidato da Agostino Megale, il fiscal drag , cioè le maggiori imposte che si pagano per effetto dell’aumento nominale dei redditi, ha sottratto ai salari lordi più di 200 euro all’anno dal 2000 al 2010. E nel 2011, secondo l’Ires, uno stipendio medio perderà circa 260 euro di potere d’acquisto rispetto all’inflazione e 306 euro a causa del fiscal drag : in tutto 566 euro.
L’inflazione e il cosiddetto cuneo fiscale, dunque, hanno un peso nel far perdere terreno ai salari, già tradizionalmente bassi in Italia, a causa della struttura produttiva dominata dalle piccole e piccolissime imprese. Sempre l’Istat osserva che «i lavoratori dipendenti delle microimprese (meno di 10 addetti) percepiscono una retribuzione annua pro capite di 18,4 mila euro, il 65,6% di quella percepita in media dai dipendenti delle imprese con 250 addetti e oltre (28,1 mila euro). Il differenziale retributivo medio legato alla dimensione aziendale è riscontrabile in tutti i macrosettori di attività economica». Le imprese con più di 250 dipendenti sono appena 3.502 su un totale di 4,3 milioni. Quelle con meno di 10 addetti 4,1 milioni. La dimensione media delle aziende italiane è di 3,9 addetti. Il valore aggiunto pro capite nelle microaziende è di 24 mila euro, in quelle con più di 250 dipendenti è invece di 60 mila euro. Eccolo il legame tra salari e produttività.
A questa situazione di base, già svantaggiata, si somma una scarsa crescita della produttività, in parte riconducibile proprio al nanismo imprenditoriale, in parte ad altri fattori. Spiega Dell’Aringa: «Il basso andamento dei salari riflette a posteriori la dinamica della produttività. Si tratterebbe invece di legare retribuzioni e produttività ex ante, attraverso una contrattazione più efficiente. In altre parole, se i lavoratori, azienda per azienda, sanno che producendo di più guadagneranno di più, questo può innescare un comportamento virtuoso che farà crescere la produttività e quindi i salari». È un po’ quello che è successo in Germania e negli altri Paesi dove la contrattazione aziendale è sviluppata e c’è una maggiore partecipazione dei dipendenti ai risultati dell’impresa. Ci sono poi almeno altri due fattori che svantaggiano l’Italia nei confronti internazionali. 1) I maggiori costi dei servizi pubblici e privati alle imprese: dai trasporti alla giustizia, dall’elettricità alla burocrazia. 2) Un livello di istruzione della manodopera inferiore alla media dei Paesi Ocse e con una formazione spesso non in linea con le richieste delle imprese.
Per rimettere in moto la produttività bisogna quindi agire su più fronti, attraverso riforme strutturali, accompagnate da una contrattazione più moderna e partecipativa. Più produttività significa più salario. A patto però che il prelievo fiscale e contributivo non aumenti e che l’inflazione venga tenuta sotto controllo. Questo per la media dei lavoratori. Ma c’è un’emergenza che riguarda i precari e più in generale i poor workers , quelli con retribuzioni povere e instabili che si allontanano sempre più dai lavoratori più ricchi. Il salario medio del 10% più ricco nel nostro Paese, dice l’Ocse, è oltre 10 volte quello del 10% più povero: 49.300 euro contro 4.877, e il divario è aumentato rispetto agli anni Novanta, quando era di 8 a 1. Secondo il 12° Rapporto sulle retribuzioni in Italia 2011 di OD&M, effettuato elaborando le retribuzioni di un campione di 700 mila lavoratori, i dirigenti guadagno in media 106.886 euro lordi, i quadri 53.585, gli impiegati 27.009, gli operai 21.793. E, «con riferimento ai primi 6 mesi del 2011, solo i dirigenti hanno avuto un aumento del proprio potere d’acquisto».
Il problema dei poor workers, dice Dell’Aringa, va affrontato con decisione, facendo costare di più determinate forme di rapporto di lavoro abusate dalle aziende: «Mi riferisco alle false partite Iva, alle false collaborazioni e ai falsi stage. Bisogna aumentare i contributi sui lavori precari con un unico committente e forse bisogna pensare a un salario minimo. Eppoi, si devono mandare anche i carabinieri». Solo così le aziende non troveranno più conveniente mascherare dietro rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione quelli che sono invece lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Eliminati gli abusi, bisogna «non toccare forme contrattuali che funzionano, come l’apprendistato, il lavoro interinale e i contratti a termine, che hanno tutte le garanzie del caso e spesso sono un trampolino verso i contratti a tempo indeterminato». Per questi ultimi, conclude Dell’Aringa, bisogna rilanciare la produttività, ridurre la differenza tra lordo e netto, tagliare quindi il cuneo fiscale e gli altri costi. Tra questi ultimi ci sono anche quelli dei licenziamenti. Ma tagliarli non è il toccasana.
Enrico Marro
fonte: il corriere.it
fonte: il corriere.it
Il pacco di Natale lo fa SDA: decine di spedizioni perse in pochi giorni pronte le diffide e i consigli dell’ufficio legale di Adico
23 dicembre 2011
Gli avvocati: «Verificare le condizioni contrattuali e assicurare gli invii. Se si dimostra che si è perso un affare, maggiori margini per ottenere un risarcimento»
Il Natale i pacchi dono non solo li porta, ma li fa anche perdere. O meglio, a farli sparire nel nulla sono i corrieri, SDA in primis, stando alle decine di segnalazioni che sta ricevendo da alcune settimane a questa parte Adico Associazione Difesa Consumatori. Un problema purtroppo non nuovo ma che in periodi dell’anno come questo, in cui il traffico di pacchi spediti aumenta a dismisura, assume dimensioni a dir poco preoccupanti.
Ma cosa si può fare per evitare che si perda apparentemente nel nulla il regalo inviato a un parente dall’altro capo d’Italia, o quell’oggetto tanto desiderato e acquistato su un sito di e-commerce a prezzo stracciato? E chi invece il disservizio l’ha già subito, ha diritto a un rimborso e in alcuni casi anche a un risarcimento? L’ufficio legale di Adico si è messo al lavoro sul tema e ha alcuni suggerimenti da dare ai consumatori vittime di questi “pacchi fantasma”.
Le richieste di assistenza arrivate sulla scrivania dell’Associazione in questi giorni tratteggiano un problema dai tanti volti. Per restare solo ai soci del Veneziano, c’è chi il pacco da SDA l’ha ricevuto, ma vuoto: come B.V., 45 anni di Mestre, che ha accettato il pacco con riserva perché sembrava manomesso, e infatti una volta aperto non ha trovato traccia del contenuto (valore 110 euro) e non avendolo assicurato non ha ottenuto neanche il rimborso del costo di spedizione. Ancora più clamorosa la vicenda raccontata da P.B., 28 anni del Lido, che per colpa di SDA ha perso quasi 300 euro: «A novembre ho acquistato dell’abbigliamento online da un negoziante di cui ho piena fiducia: il pacco era molto voluminoso e appariscente, impossibile che passasse inosservato e forse è stata questa la mia sfortuna: il pacco è partito con SDA da Mantova il 25 novembre e poi se ne sono perse le tracce; sul loro sito risulta partito e nient’altro». E sono cadute nel vuoto anche le numerose telefonate al call center del corriere sia da parte della ragazza che del negoziante, con la pratica che quasi due mesi dopo è stata chiusa perché il pacco risulta perso.
I suggerimenti dell’ufficio legale di Adico sono diversi. Innanzitutto, procurarsi copia del contratto commerciale e leggerlo con attenzione, per verificare quali sono le condizioni in caso di danneggiamento o smarrimento e se l’assicurazione è inclusa nella tariffa di spedizione o è facoltativa, e quindi richiede un ulteriore esborso di denaro (nel caso di SDA, ad esempio, l’assicurazione va pagata a parte e chiesta esplicitamente). «E non si dimentichi che c’è libertà nella contrattazione, e quindi soprattutto se il valore della merce spedita è elevato si possono pattuire condizioni assicurative diverse, mettendo nero su bianco il valore di ciò che viene spedito: in questo modo si facilita la prova nel caso in cui il contenuto andasse smarrito e si volesse chiedere il rimborso della cifra pagata» precisano i legali. Più precisamente, la legge prevede che quando si stipula un contratto di trasporto, il vettore risponde di eventuali danni e il danno in caso di perdita si valuti in base al prezzo corrente delle cose trasportate: se, quindi, il corriere vuole rimborsarvi con poche decine di euro a fronte di un oggetto smarrito dal valore molto più elevato, e tale condizione contrattuale non era esplicitae c’è stata carenza di informazioni, si prefigura una condizione vessatoria e quindi la possibilità di procedere con una diffida.
Un po’ più facile è ottenere almeno il rimborso nel caso in cui la compravendita non sia tra due privati ma attraverso un negozio online o un sito di e-commerce, che si appoggia per tutte le spedizioni a un unico corriere espresso: «In questo caso se il pacco viene perso il venditore è assicurato e di solito rimborsa senza troppa fatica il cliente» spiegano ancora dall’ufficio legale dell’Associazione. Ma il semplice rimborso potrebbe non bastare a chi, con quell’acquisto, aveva fatto un vero e proprio affare. Basti pensare a un oggetto costoso che si trova in vendita online con un grosso sconto perché ultimo pezzo della serie: «In questi casi c’è il margine anche per chiedere un risarcimento diffidando il corriere – concludono gli avvocati di Adico – perché perdendo il pacco si è persa la chance di un acquisto vantaggioso che difficilmente si potrà riproporre altrove alle stesse condizioni. Questo però va dimostrato».
Gli uffici di Adico sono aperti anche durante le feste – da martedì 27 dicembre a venerdì 30 dicembre compresi e da lunedì 2 gennaio a giovedì 5 gennaio compresi – e l’ufficio legale è a disposizione per valutare i singoli casi di consumatori vittime di questi disservizi.
«Spesso si crede, sbagliando, che affidare il proprio pacco a un corriere espresso sia di per sé una garanzia di consegna sicura e puntuale, invece non è così – commenta il presidente di Adico Carlo Garofolini – e di fronte a un numero tanto abnorme di disservizi e alla loro gravità, anche il suggerimento di assicurare le proprie spedizioni ci risulta un ulteriore regalo a chi non controlla i propri dipendenti e non tutela il diritto base del consumatore, che è quello di poter godere di ciò che ha acquistato. A questo punto consigliamo a tutti di pensarci due volte prima di affidare una spedizione a SDA, perché il rischio di non avere mai quello che si è comprato è davvero alto. E oltre al danno c’è la beffa di non avere mai una risposta plausibile quando si chiede che fine abbiano fatto i pacchi, che di certo non si “perdono” come fossero le chiavi di casa. Nel caso in cui le segnalazioni continuino ad arrivare numerose, Adico non esclude la possibilità di avviare un’azione comune».
Il Natale i pacchi dono non solo li porta, ma li fa anche perdere. O meglio, a farli sparire nel nulla sono i corrieri, SDA in primis, stando alle decine di segnalazioni che sta ricevendo da alcune settimane a questa parte Adico Associazione Difesa Consumatori. Un problema purtroppo non nuovo ma che in periodi dell’anno come questo, in cui il traffico di pacchi spediti aumenta a dismisura, assume dimensioni a dir poco preoccupanti.
Ma cosa si può fare per evitare che si perda apparentemente nel nulla il regalo inviato a un parente dall’altro capo d’Italia, o quell’oggetto tanto desiderato e acquistato su un sito di e-commerce a prezzo stracciato? E chi invece il disservizio l’ha già subito, ha diritto a un rimborso e in alcuni casi anche a un risarcimento? L’ufficio legale di Adico si è messo al lavoro sul tema e ha alcuni suggerimenti da dare ai consumatori vittime di questi “pacchi fantasma”.
Le richieste di assistenza arrivate sulla scrivania dell’Associazione in questi giorni tratteggiano un problema dai tanti volti. Per restare solo ai soci del Veneziano, c’è chi il pacco da SDA l’ha ricevuto, ma vuoto: come B.V., 45 anni di Mestre, che ha accettato il pacco con riserva perché sembrava manomesso, e infatti una volta aperto non ha trovato traccia del contenuto (valore 110 euro) e non avendolo assicurato non ha ottenuto neanche il rimborso del costo di spedizione. Ancora più clamorosa la vicenda raccontata da P.B., 28 anni del Lido, che per colpa di SDA ha perso quasi 300 euro: «A novembre ho acquistato dell’abbigliamento online da un negoziante di cui ho piena fiducia: il pacco era molto voluminoso e appariscente, impossibile che passasse inosservato e forse è stata questa la mia sfortuna: il pacco è partito con SDA da Mantova il 25 novembre e poi se ne sono perse le tracce; sul loro sito risulta partito e nient’altro». E sono cadute nel vuoto anche le numerose telefonate al call center del corriere sia da parte della ragazza che del negoziante, con la pratica che quasi due mesi dopo è stata chiusa perché il pacco risulta perso.
I suggerimenti dell’ufficio legale di Adico sono diversi. Innanzitutto, procurarsi copia del contratto commerciale e leggerlo con attenzione, per verificare quali sono le condizioni in caso di danneggiamento o smarrimento e se l’assicurazione è inclusa nella tariffa di spedizione o è facoltativa, e quindi richiede un ulteriore esborso di denaro (nel caso di SDA, ad esempio, l’assicurazione va pagata a parte e chiesta esplicitamente). «E non si dimentichi che c’è libertà nella contrattazione, e quindi soprattutto se il valore della merce spedita è elevato si possono pattuire condizioni assicurative diverse, mettendo nero su bianco il valore di ciò che viene spedito: in questo modo si facilita la prova nel caso in cui il contenuto andasse smarrito e si volesse chiedere il rimborso della cifra pagata» precisano i legali. Più precisamente, la legge prevede che quando si stipula un contratto di trasporto, il vettore risponde di eventuali danni e il danno in caso di perdita si valuti in base al prezzo corrente delle cose trasportate: se, quindi, il corriere vuole rimborsarvi con poche decine di euro a fronte di un oggetto smarrito dal valore molto più elevato, e tale condizione contrattuale non era esplicitae c’è stata carenza di informazioni, si prefigura una condizione vessatoria e quindi la possibilità di procedere con una diffida.
Un po’ più facile è ottenere almeno il rimborso nel caso in cui la compravendita non sia tra due privati ma attraverso un negozio online o un sito di e-commerce, che si appoggia per tutte le spedizioni a un unico corriere espresso: «In questo caso se il pacco viene perso il venditore è assicurato e di solito rimborsa senza troppa fatica il cliente» spiegano ancora dall’ufficio legale dell’Associazione. Ma il semplice rimborso potrebbe non bastare a chi, con quell’acquisto, aveva fatto un vero e proprio affare. Basti pensare a un oggetto costoso che si trova in vendita online con un grosso sconto perché ultimo pezzo della serie: «In questi casi c’è il margine anche per chiedere un risarcimento diffidando il corriere – concludono gli avvocati di Adico – perché perdendo il pacco si è persa la chance di un acquisto vantaggioso che difficilmente si potrà riproporre altrove alle stesse condizioni. Questo però va dimostrato».
Gli uffici di Adico sono aperti anche durante le feste – da martedì 27 dicembre a venerdì 30 dicembre compresi e da lunedì 2 gennaio a giovedì 5 gennaio compresi – e l’ufficio legale è a disposizione per valutare i singoli casi di consumatori vittime di questi disservizi.
«Spesso si crede, sbagliando, che affidare il proprio pacco a un corriere espresso sia di per sé una garanzia di consegna sicura e puntuale, invece non è così – commenta il presidente di Adico Carlo Garofolini – e di fronte a un numero tanto abnorme di disservizi e alla loro gravità, anche il suggerimento di assicurare le proprie spedizioni ci risulta un ulteriore regalo a chi non controlla i propri dipendenti e non tutela il diritto base del consumatore, che è quello di poter godere di ciò che ha acquistato. A questo punto consigliamo a tutti di pensarci due volte prima di affidare una spedizione a SDA, perché il rischio di non avere mai quello che si è comprato è davvero alto. E oltre al danno c’è la beffa di non avere mai una risposta plausibile quando si chiede che fine abbiano fatto i pacchi, che di certo non si “perdono” come fossero le chiavi di casa. Nel caso in cui le segnalazioni continuino ad arrivare numerose, Adico non esclude la possibilità di avviare un’azione comune».
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