Non si ferma la corsa dei fallimenti: sono oltre 3mila nel primo trimestre
9 maggio 2012
Non si ferma la corsa dei fallimenti: nel primo trimestre
dell’anno in Italia sono state aperte oltre 3mila procedure, il 4,2% in
più rispetto allo stesso periodo 2011. Lo affermano i dati Cerved. E la
crescita dei default non si arresta da quattro anni: a partire
dell’aprile 2008 le procedure sono in aumento.
Un primo segnale positivo viene solo dai dati destagionalizzati: tra gli ultimi 3 mesi del 2011 e i primi 3 del 2012 il numero di fallimenti corretto per fenomeni di stagionalità e di calendario è in calo dell’1,1%, mantenendosi comunque a livelli molto più elevati rispetto a quelli pre-crisi. Il gruppo Cerved, leader in Italia nell’analisi delle imprese e nello sviluppo dei modelli di valutazione del rischio di credito, segnala che dal punto di vista settoriale il primo trimestre del 2012 ha confermato le tendenze del 2011: continua a ritmi intensi l’aumento dei fallimenti nell’edilizia (+8,4% rispetto ai primi tre mesi del 2011) e nel terziario (+4,1%) che risente degli incrementi osservati nella filiera informazione, della comunicazione e dell’intrattenimento, nella logistica-trasporti e tra le società immobiliari. Pur rimanendo il comparto caratterizzato dalla maggiore diffusione dei fallimenti (l”insolvency ratiò, cioé il numero di fallimenti ogni 10mila imprese, si è attestato a 9,8 punti contro il 5,5 osservato nel complesso dell’economia) continuano i segnali che fanno sperare a un’inversione di tendenza nell’industria: le richieste default sono in calo del 7,2% rispetto al primo trimestre del 2011. Anche a livello territoriale dei primi tre mesi del 2012 si confermano le dinamiche osservate nel corso degli ultimi periodi: i default continuano a crescere in tutta la penisola ad eccezione del Nord Est, in cui si registra una diminuzione dell’8,8% rispetto allo stesso periodo del 2011 grazie ai forti cali osservati in Veneto (-12,3%) e in Emilia Romagna (-12,2%). L’aumento dei fallimenti è invece particolarmente intenso nel Centro Italia (+12,7%), fortemente maggiore rispetto alla media nazionale, nel Mezzogiorno e nelle Isole (+6,5%), così come nelle Regioni del Nord Ovest (+4,9%). Pochi segnali positivi anche dai concordati preventivi, che nel primo trimestre 2012 risultano in aumento del 4,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: l’incremento segna un’inversione di tendenza rispetto alle dinamiche positive osservate nel corso del 2011.
Un primo segnale positivo viene solo dai dati destagionalizzati: tra gli ultimi 3 mesi del 2011 e i primi 3 del 2012 il numero di fallimenti corretto per fenomeni di stagionalità e di calendario è in calo dell’1,1%, mantenendosi comunque a livelli molto più elevati rispetto a quelli pre-crisi. Il gruppo Cerved, leader in Italia nell’analisi delle imprese e nello sviluppo dei modelli di valutazione del rischio di credito, segnala che dal punto di vista settoriale il primo trimestre del 2012 ha confermato le tendenze del 2011: continua a ritmi intensi l’aumento dei fallimenti nell’edilizia (+8,4% rispetto ai primi tre mesi del 2011) e nel terziario (+4,1%) che risente degli incrementi osservati nella filiera informazione, della comunicazione e dell’intrattenimento, nella logistica-trasporti e tra le società immobiliari. Pur rimanendo il comparto caratterizzato dalla maggiore diffusione dei fallimenti (l”insolvency ratiò, cioé il numero di fallimenti ogni 10mila imprese, si è attestato a 9,8 punti contro il 5,5 osservato nel complesso dell’economia) continuano i segnali che fanno sperare a un’inversione di tendenza nell’industria: le richieste default sono in calo del 7,2% rispetto al primo trimestre del 2011. Anche a livello territoriale dei primi tre mesi del 2012 si confermano le dinamiche osservate nel corso degli ultimi periodi: i default continuano a crescere in tutta la penisola ad eccezione del Nord Est, in cui si registra una diminuzione dell’8,8% rispetto allo stesso periodo del 2011 grazie ai forti cali osservati in Veneto (-12,3%) e in Emilia Romagna (-12,2%). L’aumento dei fallimenti è invece particolarmente intenso nel Centro Italia (+12,7%), fortemente maggiore rispetto alla media nazionale, nel Mezzogiorno e nelle Isole (+6,5%), così come nelle Regioni del Nord Ovest (+4,9%). Pochi segnali positivi anche dai concordati preventivi, che nel primo trimestre 2012 risultano in aumento del 4,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: l’incremento segna un’inversione di tendenza rispetto alle dinamiche positive osservate nel corso del 2011.
fonte:avvenire.it
La privacy su Facebook e Google+? Un utente su due non conosce le regole
8 maggio 2012
Chi frequenta i social network, e solo su Facebook parliamo di
oltre 20 milioni di italiani, non ha le idee particolarmente chiare
circa le politiche di accesso e di gestione dei dati personali applicate
dalle aziende che offrono tali servizi. In altri termini non conosce
come dovrebbe diritti e doveri concernenti la questione della privacy.
L’indicazione arriva da un’indagine della società specializzata in comunicazione digitale Siegel+Gale, secondo cui oltre la metà degli iscritti a Facebook e Google+ lamentano l’ignoranza di cui sopra e solo meno di un terzo è in grado di comprendere le policy dopo averle lette e consultate online. Lo stato di confusione, su un tema sicuramente complesso ed altrettanto foriero di polemiche, è abbastanza evidente e lascia pensare a una sorta di tacita rinuncia (da parte dei consumatori) a conoscere i criteri che regolano la pubblicazione di informazioni personali, immagini e commenti su piattaforme universali come quella di Mark Zuckerberg o quella del gigante di Mountain View.
Certo i 400 utenti oggetto di indagine possono anche non fare quantitativamente testo ma il fatto che lo stato d’animo di chi quotidianamente opera sui social network siano confusione e frustrazione non è certo un buon segno. E c’è un altro aspetto della questione che lascia aperto il campo a riflessioni: il livello di comprensione, da parte degli internauti, delle politiche di gestione dei dati personali operate da Facebook e Google+ – la cui valutazione media è stata rispettivamente di 39 e 36 punti su una scala da 1 a 100 – non è superiore a quello che gli stessi utenti possono esibire per ciò che concerne documenti governativi o contratti di servizio bancari.
Ci sono in particolare due percentuali che, seppur non elevate, dovrebbero in primis indurre a qualche ulteriore approfondita analisi le due big di Internet californiane. Dopo aver riletto le regole in materia di dati personali, il 36% e 37% dei rispondenti si è detto intenzionata a modificare il proprio comportamento online sui due social media, modificando le impostazioni inerenti la privacy, cancellando la cronologia delle ricerche e, in generale, utilizzando di meno social network e tutto ciò che è Web 2.0. Poco meno di due utenti su tre, questo dice in buona sostanza lo studio di Siegel+Gale, non prende provvedimenti una volta a conoscenza delle regole di gestione dei propri dati, o per disinteresse o per mancata comprensione delle regole stesse.
Teoria che trova riscontri in due indici. Il primo, pari al 23%, è relativo a coloro che, dopo aver letto le policy, hanno capito per esempio che i profili G+ risultano visibili a chiunque in Rete (anche tramite una semplice ricerca su Google). Il secondo, pari al 30%, riguarda chi è arrivato a realizzare il concetto che, anche impostando i parametri più restrittivi concessi da Facebook, gli user name rimangono di pubblica consultazione all’interno del social network più popolare del pianeta.
Utenti troppo superficiali, dunque, e magari anche non in grado di cogliere le sfumature presenti nei termini che regolano le policy. Ma c’è anche chi fa notare – e nella fattispecie il Center for Democracy and Technology – come le policy sulla privacy non siano lo strumento più idoneo per informare gli utenti, che di norma si appoggiano all’assistenza tecnica dei siti frequentati o addirittura alle sezioni “Faq” (le cosiddette Frequently Asked Questions) reperibili direttamente online.
Serve insomma (questa almeno la convinzione di Thomas Mueller, global director of customer experience di Siegel+Gale) che Google, Facebook e compagnia rivedano le rispettive policy sulla privacy rendendole meno complesse e più sintetiche e trasparenti in termini informativi. Ne va, dice l’esperto, anche della loro reputazione.
L’indicazione arriva da un’indagine della società specializzata in comunicazione digitale Siegel+Gale, secondo cui oltre la metà degli iscritti a Facebook e Google+ lamentano l’ignoranza di cui sopra e solo meno di un terzo è in grado di comprendere le policy dopo averle lette e consultate online. Lo stato di confusione, su un tema sicuramente complesso ed altrettanto foriero di polemiche, è abbastanza evidente e lascia pensare a una sorta di tacita rinuncia (da parte dei consumatori) a conoscere i criteri che regolano la pubblicazione di informazioni personali, immagini e commenti su piattaforme universali come quella di Mark Zuckerberg o quella del gigante di Mountain View.
Certo i 400 utenti oggetto di indagine possono anche non fare quantitativamente testo ma il fatto che lo stato d’animo di chi quotidianamente opera sui social network siano confusione e frustrazione non è certo un buon segno. E c’è un altro aspetto della questione che lascia aperto il campo a riflessioni: il livello di comprensione, da parte degli internauti, delle politiche di gestione dei dati personali operate da Facebook e Google+ – la cui valutazione media è stata rispettivamente di 39 e 36 punti su una scala da 1 a 100 – non è superiore a quello che gli stessi utenti possono esibire per ciò che concerne documenti governativi o contratti di servizio bancari.
Ci sono in particolare due percentuali che, seppur non elevate, dovrebbero in primis indurre a qualche ulteriore approfondita analisi le due big di Internet californiane. Dopo aver riletto le regole in materia di dati personali, il 36% e 37% dei rispondenti si è detto intenzionata a modificare il proprio comportamento online sui due social media, modificando le impostazioni inerenti la privacy, cancellando la cronologia delle ricerche e, in generale, utilizzando di meno social network e tutto ciò che è Web 2.0. Poco meno di due utenti su tre, questo dice in buona sostanza lo studio di Siegel+Gale, non prende provvedimenti una volta a conoscenza delle regole di gestione dei propri dati, o per disinteresse o per mancata comprensione delle regole stesse.
Teoria che trova riscontri in due indici. Il primo, pari al 23%, è relativo a coloro che, dopo aver letto le policy, hanno capito per esempio che i profili G+ risultano visibili a chiunque in Rete (anche tramite una semplice ricerca su Google). Il secondo, pari al 30%, riguarda chi è arrivato a realizzare il concetto che, anche impostando i parametri più restrittivi concessi da Facebook, gli user name rimangono di pubblica consultazione all’interno del social network più popolare del pianeta.
Utenti troppo superficiali, dunque, e magari anche non in grado di cogliere le sfumature presenti nei termini che regolano le policy. Ma c’è anche chi fa notare – e nella fattispecie il Center for Democracy and Technology – come le policy sulla privacy non siano lo strumento più idoneo per informare gli utenti, che di norma si appoggiano all’assistenza tecnica dei siti frequentati o addirittura alle sezioni “Faq” (le cosiddette Frequently Asked Questions) reperibili direttamente online.
Serve insomma (questa almeno la convinzione di Thomas Mueller, global director of customer experience di Siegel+Gale) che Google, Facebook e compagnia rivedano le rispettive policy sulla privacy rendendole meno complesse e più sintetiche e trasparenti in termini informativi. Ne va, dice l’esperto, anche della loro reputazione.
Di Gianni Rusconi
Fonte: il sole24 ore.it
Fonte: il sole24 ore.it
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