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sabato 17 settembre 2011

ADICO: le news

Con l’iva al 21% aumenta la ricerca del prodotto in offerta; il 48% si sposta per risparmire; il 31% ha cambito abitudini a tavola

16 settembre 2011
L’autunno si preannuncia caldo per le famiglie italiane che già al rientro dalle vacanze si sono ritrovate a dover fare i conti con rialzi dei prezzi e stangate post manovra. A rincarare la dose è arrivato anche l’aumento dell’Iva al 21%, che da solo peserà per oltre 300 euro l’anno.
Secondo gli esperti dell’Adico la dose di rialzi si farà sentire soprattutto sul carrello del supermercato, se non altro perché la spesa di ogni giorno è quella che non si può tagliare dal budget di fine mese. E allora ecco che, per sopravvivere a rincari e carovita – spiega il presidente dell’Adico Carlo Garofolini – diventano sempre più irresistibili gli sconti e le promozioni tra gli scaffali del supermercato.
Secondo un’indagine dell’Adico condotta su un campione di 500 persone  il 48% del campione  ha dichiarato che per comprare dove i prezzi sono più bassi sono disposti anche a fare qualche chilometro in più. “Certo serve tempo e la possibilità di spostarsi agilmente, ma lo sforzo è ben ricompensato perché chi fa la spesa dove i listini sono più vantaggiosi spende meno”. Sempre lo studio dell’Adico relativo al primo semestre 2011 emerge che il 31% delle famiglie ha cambiato le abitudini di spesa, il 14% della spesa alimentare riguarda prodotti promozionali, il 19% prodotti primo prezzo.
Si tratta di una strategia – spiega Carlo Garofolini – che permette di non svuotare il carrello della spesa, anche se il 23% delle famiglie ammette di aver modificato le abitudini a tavola in conseguenza della crisi economica e della difficoltà di far quadrare i conti, mangiando meno pesce ( 16%) e carne (11%).
La ricerca ha altresì evidenziato che il 14% delle persone sacrifica i consumi fuori casa, senza però rinunciare a determinate abitudini (aperitivo, colazione), ma spostandole nell’ambiente domestico.

 

 

Sprechi, spesi cento milioni per sei braccialetti elettroni

15 settembre 2011
E’ ancora valido il contratto di fornitura con la Telecom, nonostante i dispositivi stiano marcendo al ministero. La sperimentazione non ha funzionato, ma le centrali operative restano attive 24 ore su 24.
Questa storia ha inizio il 21 aprile 2001, quando il peruviano Augusto Cesar Tena Albirena, 43 anni, condannato a 5 anni e 8 mesi di reclusione per traffico di droga, accetta di fare da cavia: testa su se stesso uno dei braccialetti elettronici che il ministero dell’Interno ha appena noleggiato.
Una sperimentazione varata con decreto legge il 2 febbraio 2001 dai ministeri dell’Interno e della Giustizia, annunciata all’inizio di aprile dall’allora titolare del Viminale, Enzo Bianco, e salutata come una possibile soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri (già da allora). Il “Personal identification device” applicato ad Albirena costava 60 mila lire al giorno, ma la ditta produttrice aveva assicurato che, qualora il detenuto si fosse allontanato di soli 10 metri, l’allarme sarebbe scattato. Il 26 giugno 2001 l’operatore in servizio alla centrale operativa di Milano si rende conto che manca il collegamento telefonico col braccialetto di Albirena. Che nel frattempo, dopo aver tagliato i fili, ha pensato bene di sparire. Più che una sperimentazione, un fallimento. L’anno successivo un detenuto siciliano rompe volutamente il braccialetto pur di tornare in carcere: suonava ogni cinque minuti, spiega agli agenti, era diventato un incubo. Il 27 luglio 2002 Antonino De Luca, 40 anni, boss mafioso di Messina condannato all’ergastolo, fugge dalla stanza dell’ospedale Sacco di Milano in cui è ricoverato per una grave malattia. Ha al polso il braccialetto: l’allarme scatta in Questura dopo quattro minuti. Troppi per illudersi di ritrovare il detenuto. E poi i giudici difficilmente chiedono la sperimentazione, che necessita del consenso della persona reclusa.
Nel 2003, allora, il nuovo ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, decide di rilanciare tutto. E qui ha inizio lo scandalo vero. A novembre viene firmato un contratto con un gestore unico, la Telecom, che deve garantire, oltre all’installazione dei Personal identification device, anche l’assistenza tecnica. Questo accordo costa allo Stato poco meno di 11 milioni di euro l’anno e soprattutto è ancora valido: andrà a scadenza alla fine del 2011, tra pochi mesi. Quasi cento milioni di euro, oltre naturalmente alla cifra già spesa per la prima fallimentare sperimentazione (un’altra decina di milioni). Il tutto per 400 braccialetti, gioielli – a giudicare dal costo – fatti di plastica nera anallergica, alcuni fili elettrici, qualche sensore e una batteria. Ogni apparecchio, che ha un codice identificativo non riproducibile, garantisce al detenuto di spostarsi nel raggio d’azione consentito dal giudice. Si può indossare comodamente anche alla caviglia, perché pesa appena 50 grammi. All’estero, in Europa soprattutto, viene usato da anni per reati cosiddetti minori, come la violenza negli stadi. In Gran Bretagna serve, per esempio, a tenere fuori dai riformatori i minorenni. Francia e Spagna lo hanno adottato nel 2009, per i mariti violenti la prima, per controllare gli spostamenti degli stalker la seconda. In Italia invece no, non serve a niente perché non viene utilizzato. Negli armadi del Viminale sarebbero rimasti oltre 390 braccialetti elettronici, che ormai saranno da buttare.
E nonostante questo continuiamo a pagare, perché il contratto con la Telecom non è mai stato rescisso e l’azienda continua a garantire il servizio: centrale operativa 24 ore al giorno. Tre anni fa, il ministro Maroni – in una delle tante sparate di questo governo su come svuotare le carceri – aveva aperto all’uso delle apparecchiature “ma solo se c’è la garanzia che funzioni e che le evasioni siano pari a zero”. Naturalmente non se n’è fatto nulla. L’11 maggio 2010 Gianfilippo D’Agostino, direttore del Public Sector di Telecom, è stato sentito dalla commissione Giustizia della Camera e ha ribadito, rispondendo alle domande della radicale Rita Bernardini, che l’azienda dispone di un servizio attivo 24 ore al giorno e di una grande centrale di controllo installata a Oriolo Romano e collegata con tutte le Questure d’Italia. Anche se per soli 6 apparecchi. Ma perché sono stati spesi oltre 100 milioni di soldi pubblici per far marcire tutto in un armadio? Molti, come al solito, danno la colpa ai magistrati, rei di non aver “prescritto” i braccialetti. “Ma gli stessi giudici non sono mai stati informati a sufficienza, in molti non conoscono neanche la procedura”, commentano dal Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria che sul braccialetto elettronico sta portando avanti da anni una vera e propria battaglia. Già, la penitenziaria: perché nel lontano 2001, oltre al Viminale, era coinvolto nel progetto anche il ministero della Giustizia. Anche se il controllo dei detenuti provvisti di braccialetto, contrariamente a quanto sarebbe sensato, è affidato alla polizia di Stato e non alla penitenziaria. “Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria c’entra eccome, perché qui si parla di esecuzione penale – proseguono dal sindacato –. Avrebbero dovuto sensibilizzare la magistratura e far sì che tutta l’operazione funzionasse. Invece non hanno fatto nulla”.

da il Fatto quotidiano del 14 settembre 2011

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