Un “tesoretto” nascosto di 60 miliardi nella rivalutazione delle rendite catastali
22 novembre 2011
Imu, rivalutazione delle rendite, riforma degli estimi. Il pacchetto casa si arricchisce di nuove ipotesi. In una parola: più tasse sul mattone. Seppur temperate da progressività ed equità. Si riparte dunque dalla proprietà per ridare fiato a lavoratori e imprese e alleggerire così Irpef e Irap.
Intanto spunta una sorpresa. Un tesoretto finora escluso da calcoli e previsioni. Vale 60 miliardi ed è nascosto negli oltre 33 milioni di unità abitative esistenti in Italia (di cui 30 intestate a persone fisiche). A tanto ammontano le tasse annue sugli immobili – Irpef, imposte indirette sui trasferimenti e Ici – che lo Stato potrebbe recuperare se aggiornasse le rendite catastali (base di calcolo di quelle imposte) e riportasse così il valore di abitazioni, pertinenze e altri fabbricati a quello di mercato.
Valore che nel 2009 era pari a circa 3,7 volte il corrispondente fiscale. Un abisso. Per colmarlo si dovrebbe mettere mano a una rivoluzione: la riforma delle tariffe d’estimo, ferme al 1990 (ma per legge si dovrebbero rivedere ogni dieci anni) e dunque ai prezzi e alla redditività delle abitazioni del 1988-89. Una vita fa.
Ma è a questa rivoluzione che il governo Monti potrebbe puntare. Per riequilibrare e adeguare – guardando all’equità – il contributo dei proprietari di immobili alla fiscalità generale. Che appunto vale 60 miliardi (precisamente 59,858 miliardi), secondo quanto calcolato dal tavolo guidato da Vieri Ceriani, funzionariogenerale di Bankitalia, e composto da 31 sigle del mondo produttivo e sindacale, in vista della riforma fiscale.
La “rivoluzione” degli estimi – lunga nella sua gestazione, si parla di anni – non esclude tuttavia il pacchetto complessivo di interventi, a cui probabilmente si accompagnerà: dalla reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, trasformata in Imu (Imposta municipale unica, anticipata al 2012, aliquota del 6,6 per mille, abbinata alla Res, l’imposta su Rifiuti e servizi al 2 per mille), fino a una più immediata e spendibile rivalutazione delle rendite.
La sola Ici vale 3,5 miliardi l’anno di gettito aggiuntivo. Con le rendite elevate del 50 per cento (oggi la percentuale di rivalutazione è ferma al 5 per cento) siamo a 11,2 miliardi. Del 100 per cento, a 20 miliardi. Del 150 per cento a 28,3 miliardi. Aumenti che, nelle ipotesi circolate finora, dovrebbero comunque essere mitigati, quasi calmierati, per tener conto del reddito complessivo del contribuente o del numero di immobili posseduti. Proprio per restituire “equità” a un prelievo di certo non gradito – visto che il 79 per cento delle famiglie italiane è proprietario di casa – e che oggi esclude proprio le prime case.
Aggiornare i valori catastali, in un modo o nell’altro – rivalutandoli o adeguandoli al mercato – vuol dire accrescere in modo proporzionale i relativi tributi. Non solo. La rendita dell’immobile – anche ora che l’Ici sulla prima casa non si paga – va comunque dichiarata e fa lievitare il reddito complessivo del contribuente. A una rendita maggiore, corrisponderà una base imponibile maggiore (ed è per questo che il tavolo di Ceriani include anche le rendite non aggiornate tra le forme di “erosione” fiscale).
Un incremento delle rendite potrebbe comportare la perdita, dunque, di altri benefici. L’esenzione dal ticket o anche i requisiti per la pensione di reversibilità, ad esempio, sono calcolati proprio sul reddito complessivo.
Intanto spunta una sorpresa. Un tesoretto finora escluso da calcoli e previsioni. Vale 60 miliardi ed è nascosto negli oltre 33 milioni di unità abitative esistenti in Italia (di cui 30 intestate a persone fisiche). A tanto ammontano le tasse annue sugli immobili – Irpef, imposte indirette sui trasferimenti e Ici – che lo Stato potrebbe recuperare se aggiornasse le rendite catastali (base di calcolo di quelle imposte) e riportasse così il valore di abitazioni, pertinenze e altri fabbricati a quello di mercato.
Valore che nel 2009 era pari a circa 3,7 volte il corrispondente fiscale. Un abisso. Per colmarlo si dovrebbe mettere mano a una rivoluzione: la riforma delle tariffe d’estimo, ferme al 1990 (ma per legge si dovrebbero rivedere ogni dieci anni) e dunque ai prezzi e alla redditività delle abitazioni del 1988-89. Una vita fa.
Ma è a questa rivoluzione che il governo Monti potrebbe puntare. Per riequilibrare e adeguare – guardando all’equità – il contributo dei proprietari di immobili alla fiscalità generale. Che appunto vale 60 miliardi (precisamente 59,858 miliardi), secondo quanto calcolato dal tavolo guidato da Vieri Ceriani, funzionariogenerale di Bankitalia, e composto da 31 sigle del mondo produttivo e sindacale, in vista della riforma fiscale.
La “rivoluzione” degli estimi – lunga nella sua gestazione, si parla di anni – non esclude tuttavia il pacchetto complessivo di interventi, a cui probabilmente si accompagnerà: dalla reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, trasformata in Imu (Imposta municipale unica, anticipata al 2012, aliquota del 6,6 per mille, abbinata alla Res, l’imposta su Rifiuti e servizi al 2 per mille), fino a una più immediata e spendibile rivalutazione delle rendite.
La sola Ici vale 3,5 miliardi l’anno di gettito aggiuntivo. Con le rendite elevate del 50 per cento (oggi la percentuale di rivalutazione è ferma al 5 per cento) siamo a 11,2 miliardi. Del 100 per cento, a 20 miliardi. Del 150 per cento a 28,3 miliardi. Aumenti che, nelle ipotesi circolate finora, dovrebbero comunque essere mitigati, quasi calmierati, per tener conto del reddito complessivo del contribuente o del numero di immobili posseduti. Proprio per restituire “equità” a un prelievo di certo non gradito – visto che il 79 per cento delle famiglie italiane è proprietario di casa – e che oggi esclude proprio le prime case.
Aggiornare i valori catastali, in un modo o nell’altro – rivalutandoli o adeguandoli al mercato – vuol dire accrescere in modo proporzionale i relativi tributi. Non solo. La rendita dell’immobile – anche ora che l’Ici sulla prima casa non si paga – va comunque dichiarata e fa lievitare il reddito complessivo del contribuente. A una rendita maggiore, corrisponderà una base imponibile maggiore (ed è per questo che il tavolo di Ceriani include anche le rendite non aggiornate tra le forme di “erosione” fiscale).
Un incremento delle rendite potrebbe comportare la perdita, dunque, di altri benefici. L’esenzione dal ticket o anche i requisiti per la pensione di reversibilità, ad esempio, sono calcolati proprio sul reddito complessivo.
la repubblica.it
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